La primavera in
Giappone è rosa. I fiori di ciliegio tingono i parchi delle città, per poche
settimane è un tripudio di petali, ma la primavera in Giappone significa anche
un nuovo inizio.
Tutto inizia ad
Aprile: l’anno fiscale, i nuovi impiegati, freschi di laurea, il loro nuovo
lavoro ed anche ahimè l’anno scolastico.
Il tanto e temuto
asilo ha avuto inizio e presto avrà anche una prematura fine.
Sabato scorso
cerimonia d’apertura in aula magna con genitori spaesati e bambini altrettanto
terrorizzati.
Ultima domenica di libero
gioco e da lunedì, il calvario.
Sveglia alle sette,
sposta il bagnetto mattutino alla sera altrimenti non si fa in tempo, colazione
premuta sull’acceleratore, vestiti preparati dalla sera prima sul divano, borse
e borsette pronte.
In missione verso il
primo giorno.
Sono riuscita a
convincere il piccolo dicendoli che andavamo solo a vedere l’asilo, come in
programma da inserimento, un’ora e mezza per il primo giorno, mentre le mamme sono
in riunione con il direttore.
Dalle pareti della
sala riunioni si sentono pianti strazianti provenire dalle aule. Continuo a
fissare l’orologio contanto i minuti, sperando ad ogni strillo che quell’urlo
non appartenga a mio figlio.
Il calvario ha
termine, in fila davanti l’aula per riprendere il proprio cucciolo, nessuna
mamma nasconde un viso stravolto dall’ansia.
Una tra tutte coglie
la mia attenzione, siede davanti a me durante tutta la riunione, il capo chino,
si asciuga le lacrime con una fazzoletto di carta, tira su col naso.
Rivedo lei in me, la capisco, la comprendo,
vorrei metterle una mano sulle spalle e consolarla dicendole che non è la sola
a sentirsi così.
Ma non ne ho il
coraggio o il tempo.
Non appena la
riunione finisce con uno scatto da far invidia ad un velocista, parte verso la
classe dove ha lasciato suo figlio.
Il primo giorno
sembra essere andato. Quando chiedo a mio figlio com’è andata mi risponde: “Ho
pianto, mamma non c’era”
Peggio di una
coltellata al cuore.
Secondo giorno stesso
rush mattutino, solo che a completare il quadro ci accoglie una giornata
invernale, con tanto di pioggia battente. Alla faccia della primavera.
Convinco il piccolo a
uscire di casa, dal suo viso tirato sa dove stiamo andando. Per fortuna il papà
ci accompagna in macchina.
Raggiungiamo l’asilo.
Sembra andare tutto bene fino a quando
mio figlio scopre che dovrà lasciarmi all’ingresso, che non lo accompagnerò fin
su, che sarà una delle maestre a portarlo in classe.
Crisi isterica di
pianto, io che sono sull’orlo del collasso quando lo vedo andare via, tutto
mogio mogio salire le scale voltandosi un’ultima volta per salutarmi.
Ho avvertito in quel
momento un crampo tra pancia e cuore simile a quelli provati durante il parto.
Come se me l’avessero strappato di dosso senza permesso, senza alcun preavviso.
Una violenza però
premeditata, di cui io non ero semplice spettatrice, ma spietata complice.
Non torno a casa,
trovo rifugio dalla pioggia e dal freddo nel vicino centro commerciale, ancora due ore prima della fine di quella
tortura.
Due ore in cui non
riesco a darmi pace.
Ma tutto ha una fine
e anche quelle due interminabili ore giungono al termine.
Torno a prenderlo, mi
corre incontro, sulle guance le lacrime si sono asciugate lasciando strisce
bianche.
Lo abbraccio forte,
me lo stringo al petto.
La sera mi addormento
pregando la Madonna di darmi un segno, di farmi capire se quello che sto
facendo sia giusto, se devo continuare in questa folle impresa.
Il mattino dopo la
sveglia suona come sempre alle sette, sveglio il piccolo, mi sembra troppo
caldo per essere calore di letto, prendo il termometro, 38.
Il segno che avevo
chiesto era arrivato.
Lunedì andrò di nuovo
all’asilo, questa volta a chiedere di ritirare mio figlio da scuola.
LAPIDATEMI PURE.
Non mi vergogno della
mia scelta.
I figli non ci
appartengono. Noi possiamo semplicemente seguirli mentre fanno i primi passi
verso un nuovo mondo.
Tutto verissimo,
super giustissimo.
Ma aggiungo, c’è un’età
per tutto.
E tre anni è troppo
presto per camminare da solo. A tre anni se mio figlio ha ancora bisogno di me,
io ci sarò.
Non conduciamo una
vita da reclusi.
Usciamo tutti i
giorni, parco, passeggiate, cinema, ludoteca. Con me frequenta il corso di
musica e d’inglese, da due mesi quest’ultimo ha iniziato a frequentarlo da
solo. Adora andarci e si diverte molto con i suoi amichetti, in un ambiente
dove sei bambini sono seguiti da due maestre.
All’asilo la ratio
tra maestri e bambini è di 1 a 15. In una classe di 30 bambini tutti di tre
anni.
Mi dite voi come fa
un bambino a sentirsi protetto in queste condizoni? Quando a volte per stare
dietro a mio figlio non bastiamo io e mio marito insieme?
Io da piccola non ho
frequentato l’asilo, mentre i miei genitori lavoravano, restavo a casa di
nonna e non per questo sono venuta su con un’attacco morboso alla mamma.
A 5 anni ho chiesto
io espressamente a mia madre di andare a scuola, a 15 anni sono andata per due
mesi in Inghilterra, a 18 ho lsciato casa per andare all’università, a 22 ho
lasciato l’Italia per andare a studiare in Giappone e da 9 anni vivo a Tokyo.
Pur non essendo
andata all’asilo vivo a 9000 km di distanza da casa.
Quindi perdonatemi se
ho deciso di aspettare a separarmi da mio figlio, nel peggiore dei casi
potrebbe in un futuro andare a vivere a 9000 km lontano da me e continuare
comunque a sentirsi amato da quella mamma che quella volta ha preferito stingerlo
a sè.
Betty
From Tokyo